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Unknown Pleasures

Bernard “Albrecht” Sumner (chitarra e tastiere) e Peter Hook (basso) vedono esibirsi i Sex Pistols nella loro Manchester nel giugno ’76. È la spinta a voler formare una band, che chiamano prima Stiff Kittens, poi Warsaw, e infine Joy Division quando è già il quartetto definitivo, con il batterista Steven Morris e il cantante Ian Curtis. Morris è ammiratore dei Can, ha una scansione sincopata congenita severa e paramilitare, vicina a una squadrata forma di dance; il basso ripetitivo di Hook striscia appena sotto la chitarra di Albrecht, arrotata per schioccare come una frusta (Shadowplay), gracchiare o sfiancarsi nella prostrazione di New Dawn Fades; infine Ian Curtis, baritono introverso innamorato di Jim Morrison, Lou Reed e Iggy Pop. Capace, in intense allegorie poetiche, di tradurre in arte l’alienazione, il disagio, l’incomunicabilità. I Joy Division rigirano in modo quasi autistico la negazione estrema e degradata del punk verso l’interno del sé e della psiche umana; la musica, angolare, traumatica, assiderante, psicanalitica, richiama Doors (Candidate), Velvet Underground e Bowie in un dark punk esistenziale e psicologico, senza trucchi. Disorder parte in un ostinato ritmo di basso/batteria per diventare all’improvviso una celebrazione, ma in un crescendo che non differisce in nulla dalla crisi di panico; altri brani si accendono in flash, bagliori improvvisi, come Insight. Il cantante scrive versi di criptico romanticismo, clinico quando descrive in She’s Lost Control i sintomi delle sue crisi epilettiche per interposta persona, visionario in Interzone, punk rock a due voci dove cita la sua passione per William Burroughs. Unknown Pleasures è un debutto che non si dimentica, su cui campeggia già come un simbolo il diagramma stellare bianco su fondo nero a opera del grafico della Factory, Peter Saville.