Album,  F,  Yardbirds

Five Live Yardbirds

Nei giorni cruciali del beat, 1963, cinque ragazzi londinesi si mettono insieme con una buffa sigla che in realtà vuole onorare i musicisti itineranti della tradizione folk e blues (non quindi “animali da cortile” o “gallinacci”, come li definirà Mike Bongiorno sul palco del festival di Sanremo, ma qualcosa come “hobos”). Sono Keith Relf, voce e armonica, Chris Dreja e Anthony “Top” Topham, chitarre, Paul Saamwell Smith, basso, Jim mcCarty, batteria. Topham se ne va prestissimo, sostituito dal giovane promettente Eric Clapton, che guida bene la band nei meandri del beat blues più nero. Acerbi, ingenui ma grintosi, ed efficaci, i cinque debuttano con un (raro per l’epoca) live sulla pedana del Crawdaddy Club, il locale di Richmond che già aveva fatto la fortuna dei giovani Rolling Stones — il talent scout è sempre lo stesso, Giorgio Gomelsky. Una scaletta di sole cover, eseguite con la schiuma alla bocca e infinito amore: John Lee Hooker, Howlin’ Wolf, tre Bo Diddley schiumanti, Too Much Monkey Business di Chuck Berry — da sgrezzare ma già molto interessanti. La discografia Yardbirds è un pasticcio monumentale, seconda solo, in questo, a quella di Hendrix. Gli album sono stati più e più volte ristampati, in vinile e CD, con modifiche e sovrapposizioni oltre a periodiche apparizioni di inediti. Da qualche tempo la Repertoire ha sistemato i nastri in quella che vogliamo considerare l’edizione “definitiva”. In questa versione, il CD di Five Live aggiunge ai dieci brani originali sei altre tracce dal Crawdaddy Club ’65 e due invece da una data in Germania 1967.